La limitazione del debito armatoriale: luci e ombre dell’istituto in Italia
25/11/2025
Rubrica a cura dello Studio Legale Siccardi Bregante & C. - www.siccardibregante.it - studio@siccardibregante.it
La limitazione del debito armatoriale è un istituto che, nel nostro ordinamento, continua a far parlare di sé. Nato per contenere l’esposizione patrimoniale dell’armatore in un settore ad alto rischio e, successivamente, giustificato per mantenere la responsabilità dell’armatore entro limiti ragionevolmente allineati alle coperture assicurative disponibili sul mercato, il suo impiego si rivela oggi tutt’altro che lineare. Le difficoltà operative derivano da più fattori.
Il primo problema nasce dall’attuale quadro normativo italiano, segnato da evidenti lacune. Preliminarmente si osserva che l’art. 7 del Codice della navigazione stabilisce che la responsabilità dell’armatore è regolata dalla legge dello Stato di bandiera, con la conseguenza che le norme nazionali sulla limitazione del debito si ritengono applicabili solo alle navi italiane.
Con la riforma del Codice operata dal D. Lgs. 111/2012, il sistema tradizionale di limitazione del debito armatoriale, previsto dagli artt. 275 e ss. del Codice, è rimasto confinato alle navi italiane di stazza lorda inferiore alle 300 tonnellate. Per tali unità, l’armatore può limitare il proprio debito per tutte le obbligazioni sorte durante un viaggio, fatta eccezione per i casi di dolo o colpa grave personale dello stesso. La somma-limite si calcola addizionando il valore della nave al momento della richiesta di limitazione (ed entro il termine del viaggio) ai proventi derivanti dal nolo o da altre attività legate al trasporto. La legge prevede anche due correttivi: se il valore della nave scende sotto un quinto rispetto al valore all’inizio del viaggio, ai fini del calcolo della somma-limite limitazione si assume tale quinto; se supera i due quinti, il valore viene fissato a questa soglia.
Per le navi di stazza lorda pari o superiore a 300 tonnellate, invece, il legislatore del 2012 aveva previsto l’applicazione del sistema internazionale previsto dalla Convenzione di Londra del 1976, così come modificata dal Protocollo del 1996 (LLMC 1996), che prevede modalità di calcolo della somma-limite che partono dalla stazza lorda della nave (piuttosto che dal valore della stessa). Tale operazione, tuttavia, è rimasta incompiuta. Per introdurre nel nostro ordinamento i limiti di debito della LLMC 1996, l’Italia ha ritenuto sufficiente recepire la direttiva comunitaria 2009/20/CE, recante l’obbligo di assicurazione per la responsabilità dell’armatore per una somma almeno pari ai limiti previsti nella LLMC 1996, senza, però, procedere con le formalità per la ratifica della Convenzione. Il risultato di tale intervento normativo è stato quello di delineare un quadro frammentario e incerto. Il sistema precedente, pur non aggiornato agli standard internazionali, manteneva, infatti, una coerenza complessiva; oggi, invece, l’applicabilità di una limitazione del debito per le navi italiane di stazza lorda pari o superiore alle 300 tonnellate resta incerta e priva di un fondamento procedurale chiaro.
La seconda querelle, relativa all’applicazione del limite di debito armatoriale previsto dagli artt. 275 e ss. del Codice, concerne le tensioni che possono emergere tra interessi contrapposti: da un lato, quello della tutela economica e della sostenibilità dell’impresa marittima, dall’altro, quello della protezione di diritti fondamentali delle persone coinvolte in un sinistro marittimo e dell’effettività del relativo ristoro. Non è raro, infatti, che su tale fronte sorgano conflitti tra armatori e danneggiati e la recente sentenza della Corte di Cassazione n. 25290/2025 ne rappresenta un esempio emblematico. Dal punto di vista giuridico-fattuale, la vicenda portata all’attenzione della Corte non presenta elementi insoliti. Si tratta di un motopeschereccio italiano di stazza inferiore alle 300 tonnellate, naufragato durante un viaggio con conseguente decesso dei quattro marittimi a bordo. In conseguenza del sinistro, i familiari delle vittime hanno agito contro l’armatore, nella sua veste di datore di lavoro, chiedendo un risarcimento proporzionato alla gravità del danno subito. L’armatore, dal canto suo, ha invocato la limitazione di debito prevista dagli artt. 275 e 276 cod. nav. Il nodo centrale della disputa è risultato, pertanto, quello dell’operatività di norme che hanno consentito di mettere a disposizione dei danneggiati una somma limite (pari a 1/5 del valore della nave alla partenza) giudicata dai familiari dei deceduti insufficiente a risarcirli dei danni subiti.
In particolare, i familiari delle vittime hanno sollevato davanti alla Corte una serie di questioni di legittimità costituzionale con riguardo agli artt. 275 e 276 del Codice. Tra le difese svolte dai ricorrenti ricordiamo le seguenti: (i) l’applicazione dei limiti previsti da tali norme nel caso concreto violerebbe gli articoli 2, 3 e 32 della Costituzione, generando una disparità di trattamento rispetto a vittime di danni analoghi in altri contesti (ad es. nei confronti di datori di lavoro non armatori o in sinistri soggetti a limiti più elevati, come nel settore aereo); (ii) così come strutturato, il sistema appare “ingiusto”, in quanto, per lo stesso sinistro, l’armatore, in presenza di una polizza corpi “stimata”, può ottenere dall’assicuratore il valore integrale della nave, mentre ai familiari delle vittime spetterebbe soltanto una quota minima (1/5) di tale importo; (iii) la “colpa grave dell’armatore”, prevista dall’art. 275 ai fini dell’esclusione dell’operatività del limite, dovrebbe estendersi anche alla colpa grave del comandante, accertata nel caso concreto dai giudici di appello, rendendo così più coerente l’applicazione della norma rispetto ai principi di responsabilità.
Tali argomentazioni sono state respinte dalla Corte. Senza entrare nel merito delle questioni procedurali trattate nel caso, ciò che emerge con chiarezza è il ragionamento sostanziale svolto dalla Cassazione rispetto alla limitazione del debito armatoriale. Secondo la Corte, detto istituto rappresenta uno strumento di equilibrio tra gli interessi dei danneggiati al ristoro e la continuità economica di un’attività, come quella marittima, considerata essenziale e dal momento che la disciplina impugnata (quella codicistica) è riferibile ad “armatore di piccole dimensioni”, l’esistenza di un limite più contenuto risulterebbe giustificato, sotto il profilo della proporzionalità e della ragionevolezza.
Il caso esaminato dalla Corte mette in luce la frizione intrinseca al sistema di limitazione del debito armatoriale previsto dagli artt. 275 e 276 cod. nav. e consente di svolgere alcune riflessioni.
Da un lato, il ragionamento della Corte - che per giustificare la proporzionalità e la ragionevolezza della limitazione sembra dare per assunto che la modesta stazza della nave consenta di considerare un “armatore di piccole dimensioni” - appare eccessivamente semplificato. Un armatore, infatti, potrebbe gestire una flotta di unità sotto le 300 tonnellate o disporre di risorse, strutture e organizzazioni significative.
D’altro canto, la disciplina codicistica sulla limitazione del debito armatoriale, così come attualmente formulata, appare comunque inadeguata a supportare le richieste di oggi. Invero, le somme-limite calcolate secondo le norme nazionali possono rivelarsi, soprattutto nei sinistri con esiti mortali (come quello portato all’attenzione della Corte nel caso esaminato), del tutto insufficienti a garantire un ristoro adeguato alle vittime. Per ridurre questo divario, sarebbe opportuno rivedere il metodo di determinazione dei limiti, introducendo meccanismi integrativi o soglie minime di risarcimento, in grado, da un lato, di preservare la funzione economica dell’istituto, ma senza compromettere i diritti dei danneggiati, adeguando, parallelamente, le coperture assicurative armatoriali, ad ulteriore tutela dell’attività di impresa.
Inoltre, si conferma anacronistico il disposto dell’art. 275 cod. nav., che consente all’armatore di avvalersi sempre della limitazione, salvi i casi di colpa grave e dolo personali dello stesso. L’armatore, infatti, dispone oggi di strumenti di controllo operativo e gestionale ampi e la possibilità di invocare comunque il limite, anche in presenza di colpa grave dei preposti - per i cui atti l’armatore già risponde ai sensi dell’art. 274 cod. nav. - accentua il divario tra protezione patrimoniale dell’impresa e tutela effettiva dei danneggiati.
In conclusione, per restituire certezza e coerenza all’istituto della limitazione del debito armatoriale nel nostro ordinamento, è urgente, prima di tutto, completare gli interventi necessari affinché la LLMC 1996 entri effettivamente in vigore in Italia, garantendo un sistema chiaro per gli armatori di navi italiane di stazza lorda pari a o superiore alle 300 tonnellate. Parallelamente, sarebbe opportuno ripensare alle norme codicistiche per assicurare, anche nei casi in cui si tratti di navi più piccole, una maggiore effettività della tutela dei danneggiati.
La limitazione del debito armatoriale è un istituto che, nel nostro ordinamento, continua a far parlare di sé. Nato per contenere l’esposizione patrimoniale dell’armatore in un settore ad alto rischio e, successivamente, giustificato per mantenere la responsabilità dell’armatore entro limiti ragionevolmente allineati alle coperture assicurative disponibili sul mercato, il suo impiego si rivela oggi tutt’altro che lineare. Le difficoltà operative derivano da più fattori.
Il primo problema nasce dall’attuale quadro normativo italiano, segnato da evidenti lacune. Preliminarmente si osserva che l’art. 7 del Codice della navigazione stabilisce che la responsabilità dell’armatore è regolata dalla legge dello Stato di bandiera, con la conseguenza che le norme nazionali sulla limitazione del debito si ritengono applicabili solo alle navi italiane.
Con la riforma del Codice operata dal D. Lgs. 111/2012, il sistema tradizionale di limitazione del debito armatoriale, previsto dagli artt. 275 e ss. del Codice, è rimasto confinato alle navi italiane di stazza lorda inferiore alle 300 tonnellate. Per tali unità, l’armatore può limitare il proprio debito per tutte le obbligazioni sorte durante un viaggio, fatta eccezione per i casi di dolo o colpa grave personale dello stesso. La somma-limite si calcola addizionando il valore della nave al momento della richiesta di limitazione (ed entro il termine del viaggio) ai proventi derivanti dal nolo o da altre attività legate al trasporto. La legge prevede anche due correttivi: se il valore della nave scende sotto un quinto rispetto al valore all’inizio del viaggio, ai fini del calcolo della somma-limite limitazione si assume tale quinto; se supera i due quinti, il valore viene fissato a questa soglia.
Per le navi di stazza lorda pari o superiore a 300 tonnellate, invece, il legislatore del 2012 aveva previsto l’applicazione del sistema internazionale previsto dalla Convenzione di Londra del 1976, così come modificata dal Protocollo del 1996 (LLMC 1996), che prevede modalità di calcolo della somma-limite che partono dalla stazza lorda della nave (piuttosto che dal valore della stessa). Tale operazione, tuttavia, è rimasta incompiuta. Per introdurre nel nostro ordinamento i limiti di debito della LLMC 1996, l’Italia ha ritenuto sufficiente recepire la direttiva comunitaria 2009/20/CE, recante l’obbligo di assicurazione per la responsabilità dell’armatore per una somma almeno pari ai limiti previsti nella LLMC 1996, senza, però, procedere con le formalità per la ratifica della Convenzione. Il risultato di tale intervento normativo è stato quello di delineare un quadro frammentario e incerto. Il sistema precedente, pur non aggiornato agli standard internazionali, manteneva, infatti, una coerenza complessiva; oggi, invece, l’applicabilità di una limitazione del debito per le navi italiane di stazza lorda pari o superiore alle 300 tonnellate resta incerta e priva di un fondamento procedurale chiaro.
La seconda querelle, relativa all’applicazione del limite di debito armatoriale previsto dagli artt. 275 e ss. del Codice, concerne le tensioni che possono emergere tra interessi contrapposti: da un lato, quello della tutela economica e della sostenibilità dell’impresa marittima, dall’altro, quello della protezione di diritti fondamentali delle persone coinvolte in un sinistro marittimo e dell’effettività del relativo ristoro. Non è raro, infatti, che su tale fronte sorgano conflitti tra armatori e danneggiati e la recente sentenza della Corte di Cassazione n. 25290/2025 ne rappresenta un esempio emblematico. Dal punto di vista giuridico-fattuale, la vicenda portata all’attenzione della Corte non presenta elementi insoliti. Si tratta di un motopeschereccio italiano di stazza inferiore alle 300 tonnellate, naufragato durante un viaggio con conseguente decesso dei quattro marittimi a bordo. In conseguenza del sinistro, i familiari delle vittime hanno agito contro l’armatore, nella sua veste di datore di lavoro, chiedendo un risarcimento proporzionato alla gravità del danno subito. L’armatore, dal canto suo, ha invocato la limitazione di debito prevista dagli artt. 275 e 276 cod. nav. Il nodo centrale della disputa è risultato, pertanto, quello dell’operatività di norme che hanno consentito di mettere a disposizione dei danneggiati una somma limite (pari a 1/5 del valore della nave alla partenza) giudicata dai familiari dei deceduti insufficiente a risarcirli dei danni subiti.
In particolare, i familiari delle vittime hanno sollevato davanti alla Corte una serie di questioni di legittimità costituzionale con riguardo agli artt. 275 e 276 del Codice. Tra le difese svolte dai ricorrenti ricordiamo le seguenti: (i) l’applicazione dei limiti previsti da tali norme nel caso concreto violerebbe gli articoli 2, 3 e 32 della Costituzione, generando una disparità di trattamento rispetto a vittime di danni analoghi in altri contesti (ad es. nei confronti di datori di lavoro non armatori o in sinistri soggetti a limiti più elevati, come nel settore aereo); (ii) così come strutturato, il sistema appare “ingiusto”, in quanto, per lo stesso sinistro, l’armatore, in presenza di una polizza corpi “stimata”, può ottenere dall’assicuratore il valore integrale della nave, mentre ai familiari delle vittime spetterebbe soltanto una quota minima (1/5) di tale importo; (iii) la “colpa grave dell’armatore”, prevista dall’art. 275 ai fini dell’esclusione dell’operatività del limite, dovrebbe estendersi anche alla colpa grave del comandante, accertata nel caso concreto dai giudici di appello, rendendo così più coerente l’applicazione della norma rispetto ai principi di responsabilità.
Tali argomentazioni sono state respinte dalla Corte. Senza entrare nel merito delle questioni procedurali trattate nel caso, ciò che emerge con chiarezza è il ragionamento sostanziale svolto dalla Cassazione rispetto alla limitazione del debito armatoriale. Secondo la Corte, detto istituto rappresenta uno strumento di equilibrio tra gli interessi dei danneggiati al ristoro e la continuità economica di un’attività, come quella marittima, considerata essenziale e dal momento che la disciplina impugnata (quella codicistica) è riferibile ad “armatore di piccole dimensioni”, l’esistenza di un limite più contenuto risulterebbe giustificato, sotto il profilo della proporzionalità e della ragionevolezza.
Il caso esaminato dalla Corte mette in luce la frizione intrinseca al sistema di limitazione del debito armatoriale previsto dagli artt. 275 e 276 cod. nav. e consente di svolgere alcune riflessioni.
Da un lato, il ragionamento della Corte - che per giustificare la proporzionalità e la ragionevolezza della limitazione sembra dare per assunto che la modesta stazza della nave consenta di considerare un “armatore di piccole dimensioni” - appare eccessivamente semplificato. Un armatore, infatti, potrebbe gestire una flotta di unità sotto le 300 tonnellate o disporre di risorse, strutture e organizzazioni significative.
D’altro canto, la disciplina codicistica sulla limitazione del debito armatoriale, così come attualmente formulata, appare comunque inadeguata a supportare le richieste di oggi. Invero, le somme-limite calcolate secondo le norme nazionali possono rivelarsi, soprattutto nei sinistri con esiti mortali (come quello portato all’attenzione della Corte nel caso esaminato), del tutto insufficienti a garantire un ristoro adeguato alle vittime. Per ridurre questo divario, sarebbe opportuno rivedere il metodo di determinazione dei limiti, introducendo meccanismi integrativi o soglie minime di risarcimento, in grado, da un lato, di preservare la funzione economica dell’istituto, ma senza compromettere i diritti dei danneggiati, adeguando, parallelamente, le coperture assicurative armatoriali, ad ulteriore tutela dell’attività di impresa.
Inoltre, si conferma anacronistico il disposto dell’art. 275 cod. nav., che consente all’armatore di avvalersi sempre della limitazione, salvi i casi di colpa grave e dolo personali dello stesso. L’armatore, infatti, dispone oggi di strumenti di controllo operativo e gestionale ampi e la possibilità di invocare comunque il limite, anche in presenza di colpa grave dei preposti - per i cui atti l’armatore già risponde ai sensi dell’art. 274 cod. nav. - accentua il divario tra protezione patrimoniale dell’impresa e tutela effettiva dei danneggiati.
In conclusione, per restituire certezza e coerenza all’istituto della limitazione del debito armatoriale nel nostro ordinamento, è urgente, prima di tutto, completare gli interventi necessari affinché la LLMC 1996 entri effettivamente in vigore in Italia, garantendo un sistema chiaro per gli armatori di navi italiane di stazza lorda pari a o superiore alle 300 tonnellate. Parallelamente, sarebbe opportuno ripensare alle norme codicistiche per assicurare, anche nei casi in cui si tratti di navi più piccole, una maggiore effettività della tutela dei danneggiati.
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